Come sempre negli ultimi anni, tra breve cominceranno le lamentele pubbliche di chi cerca lavoratori in vista della stagione estiva e non riesce a trovarli. Alcuni commentatori approfitteranno per parlare male del reddito di cittadinanza, che pure esiste da anni in moltissimi stati europei, delle nuove generazioni choosy e della carenza di spirito di sacrificio nei tempi moderni. Qualcuno esalterà, pro domo sua, le virtù della gavetta. Insomma, si sentiranno gli stessi discorsi che ultimamente sui social ottengono l’effetto opposto a quello che si desidera, ovvero un oceano di commenti lapidari che incitano gli imprenditori ad allargare i cordoni della borsa e remunerare di più i lavoratori. Ma il cambiamento che stiamo vivendo oggi, senza grandi speranze di prevedere dove porterà la nostra società alla fine, è effettivamente epocale.Vorrei a questo punto dare un piccolo contributo per spiegare come mai ci mancano lavoratori.Gli italiani che escono o che usciranno a breve dall’età lavorativa sono i nati tra il 1955 e il 1960. Questo gruppo era composto all’origine da un totale di circa 5,3 milioni di individui. I giovani chiamati a sostituirli sono e saranno i nati dal 1995 al 2000, che fanno parte di un gruppo composto da 3,2 milioni di persone. Tralasciamo per ora il dato dell’emigrazione di tantissimi giovani, che vanno a lavorare dove hanno retribuzioni più alte e un welfare migliore.

Oggi 100 lavoratori che vanno in pensione possono contare su 60 giovani che li sostituiscano e per colmare il vuoto bisogna pescare tra i disoccupati meno giovani oppure tra gli immigrati.

Fino al 2019, l’immigrazione garantiva un bilancio positivo (immigrati-emigrati) di circa 150.000 persone l’anno (nelle statistiche che si trovano in giro mancano le fasce d’età). Ma per colmare il gap tra chi entra nell’età lavorativa e chi ne esce, in questa fase servirebbero circa 350.000 giovani in più ogni anno.

I numeri che ho usato sono molto approssimativi, ma dipingono un quadro generale abbastanza realistico.

La tendenza attuale ci dice con chiarezza che almeno per i prossimi 25 o 30 anni i lavoratori non basteranno mai a coprire i posti vacanti, soprattutto quando si cercano ventenni o venticinquenni con retribuzioni basse, per cui i giovani si orienteranno verso i datori di lavoro che offrono le migliori condizioni (retribuzione, durata del contratto, incarico, turni, vicinanza, clima aziendale, crescita professionale, carriera), saranno propensi a cambiare lavoro quando riceveranno un’offerta migliore e avranno sempre maggior potere contrattuale in base alla “legge” della domanda e dell’offerta.

Questo ha delle implicazioni forti per l’organizzazione dello Stato e per l’impresa, che saranno in competizione diretta, tutti contro tutti, per accaparrarsi i giovani lavoratori e mano a mano che il problema si aggraverà anche i meno giovani, fino al paradosso delle offerte di lavoro “basta che respiri”. Ma implica anche il fallimento prevedibile di chi cerchi lavoratori con ruoli o contratti poco appetibili, fallimento sempre più certo con l’aumentare dei posti vacanti in assoluto.

L’abitudine di trovare facilmente gli stagionali è un relitto di un passato non più attuale; le aziende abituate a selezionare il personale tra una folla di aspiranti dovranno elaborare un sistema nuovo che tenga conto dei numeri e reinventare le loro organizzazioni, perché dal loro punto di vista la situazione peggiorerà per i prossimi 30 anni. Ma è un problema relativamente piccolo rispetto alle esigenze di ricoprire i ruoli essenziali per il funzionamento dello stato: medici, infermieri, poliziotti, vigili del fuoco, ricercatori, ingegneri. Il problema è anche un adeguamento del welfare, perché mano a mano che i lavoratori diminuiranno servirà valorizzare al massimo i talenti di ognuno e questo implica un aumento molto consistente di risorse e di personale per  scuola, università e formazione e anche uno sforzo enorme per trattenere ogni key people dove si trova, ridurre gli incidenti sul lavoro, evitare l’emigrazione dei più preparati.

Si potrebbe anche parlare di inflazione del valore dei giovani. Un giovane oggi vale il doppio o il triplo di quanto valeva un giovane nel 1980 e perché esprima le sue potenzialità appieno serve investire molto di più. È un cambiamento epocale di adattamento alle contingenze del presente che da noi ritarda, perché alle classi dirigenti attuali non importa poi molto di quello che accadrà oltre la finestra del bilancio o oltre la durata della carica che ricoprono (e questo è sempre stato un problema strutturale della nostra organizzazione sociopolitica) e anche perché c’è la tendenza generale a usare schemi mentali ormai obsoleti e a nascondere la testa sotto la sabbia.

Anche se per noi è una novità, non è la prima volta che la società si trova in una situazione di questo tipo. Dopo le grandi epidemie di peste del tardo medioevo, che colpivano una zona dimezzando quasi la popolazione in pochi mesi, la carenza di lavoratori delle regioni più ricche e avanzate, come ad esempio la zona fiorentina, ha innescato profondi mutamenti socioeconomici, prodotti da aumenti dei salari per la contrazione del numero di lavoratori. L’aumento della capacità di spesa ha creato nuovi bisogni e come risposta nuove industrie e nuove occasioni d’impresa. Il principio che alla lunga non tutto il male viene per nuocere è una magra consolazione per chi vive nel momento in cui il male arriva, ma questa situazione era ampiamente prevedibile, e infatti prevista, già 30 anni fa e nulla è stato fatto per prevenirne gli effetti.

Qualsiasi azione sulla demografia ha bisogno di 25-30 anni per cominciare a produrre degli effetti, quindi viviamo oggi il risultato delle politiche portate avanti fino al 1998 e qualsiasi azione intrapresa oggi (ammesso e non concesso che la politica si prenda il disturbo di fare qualcosa per il futuro) influirà a partire dal 2048. Occorre ripensare molte delle cose che diamo per scontate, per approfittare delle occasioni dei mutamenti e soprattutto per non restare ancorati a un passato ormai concluso.